Carissimi amici, mentre cercavo su internet del materiale per un lavoro di approfondimento per l’università, mi sono imbattuto in questa favola sulla sicurezza, un tema oggi molto dibattuto. Vi invito a leggerla e trarne alcuni spunti anche pensando alla nostra realtà cittadina. Meglio che ogni altra statistica che afferma che i reati (sia maggiori che minori) diminuiscono anno dopo anno e siamo ormai ai minimi da 15 anni a questa parte, questo dialogo inventato ci fa capire quale significato non convenzionale assume per noi oggi la parola insicurezza. Buona lettura e commentate!
I Greci, questo popolo di filosofi, amavano riflettere sulle cause vicine e lontane, ultime e prime dei fenomeni. Di fronte a qualsiasi cosa o evento del creato, nel lungo dibattito che si svolge da Eraclito ad Aristotele, distinguevano tra vari tipi di cause: materiali, formali, efficienti e agenti. È vero che si occupavano soprattutto di fenomeni naturali (la sociologia era una scienza ancora da inventare). Ma se quegli appassionati pensatori si fossero trovati di fronte alla «sicurezza» avrebbero fatto al nostro sociologo convertito alcune domande. Un dialogo avrebbe avuto più o meno l’andamento che segue.
Greci: «Che cos’è la sicurezza, è una cosa, un fatto? Se non lo è, è un sogno, un idolo?».
Sociologo: «Beh, non è proprio una cosa, è il fine a cui dovrebbe tendere la vita dei cittadini, la mancanza di preoccupazioni per la propria incolumità, insomma la certezza che quando esci per strada non sarai scippato...».
(Segue un lungo e confuso botta e risposta, in cui alla fine, messo alle strette, il sociologo ammette che, per definizione, la sicurezza è qualcosa che non c’è, insomma non è un fatto osservabile, ma un’aspirazione, una speranza, se no, non starebbe lì a preoccuparsene e studiare i mezzi per attuarla; i greci convengono allora che l’unico modo per definire la sicurezza è quello di «causa finale», cioè di stato a cui si tende, ma che proprio per questo non si può misurarla empiricamente; i greci chiedono al sociologo di parlare allora della sicurezza in termini di «causa efficiente», cioè da che cosa è causata, un po’ come per loro i sogni sono causati dalla cattiva digestione; altrimenti, non ci capiscono nulla).
Sociologo. «La causa del fine o bisogno di sicurezza è l’esistenza dell’insicurezza».
Greci: «Che cos’allora l’insicurezza? Puoi farci qualche esempio chiaro e indiscutibile?».
Sociologo (cominciando a sudare): «Per esempio, il cittadino ha paura di essere scippato...».
Greci: «Allora, l’insicurezza è lo scippo?».
Sociologo: «No, è la paura dello scippo».
Epicureo: «Non capisco. Se non c’è lo scippo, non si può avere paura di una cosa che non c’è. Ma se lo scippo c’è, che senso ha avere paura di una cosa che c’è già stata?».
Sociologo (riesumando i suoi ricordi liceali): «Beh, l’insicurezza non è proprio un fatto, è un sentimento collettivo, come il panico che improvvisamente faceva scappare gli opliti in battaglia o la pura dei Galli che il cielo gli cadesse addosso».
Socrate (appena giunto, malfermo sulle gambe per abbondati libagioni, sghignazzando): «Stai dicendo che voi moderni siete tutti fifoni?».
Sociologo: «No, o forse sì. Il problema è che i cittadini oggi parlano solo di sicurezza e insicurezza».
Aristotele: «Allora è chiaro, se i cittadini ne parlano, l’insicurezza è una questione politica, o come dite voi che avete studiato solo il latino, sociale».
Sociologo (rinfrancato): «Sì, sì, è una questione sociale e politica. È uno dei problemi capitali del nostro tempo».
Platone: «E allora perché ci fai perdere tempo con la sicurezza come causa finale di qualcosa che non si riesce a definire razionalmente? La sicurezza non è mica una cosa, e neanche l’insicurezza. Non sarà un modo di ragionare da sofisti che mira a ingannare i cittadini?».
Sociologo (imbarazzato): «C’è chi lo dice, qualche estremista».
Platone: «È chiaro. I governanti parlano di sicurezza per tenere i cittadini nell’insicurezza e così continuano a comandare. Questo mi piace».
Aristotele, al sociologo: «Allora tu sei un governante, visto che parli di sicurezza e insicurezza».
Sociologo: «Ma no, sono una specie di scienziato, di filosofo».
Aristotele (a Platone): «Hai visto, questi qui hanno realizzato la tua repubblica ideale».
(Se ne vanno. Platone è molto soddisfatto che i moderni si ricordino di lui. Aristotele è pensieroso. Socrate scuote la testa: in fondo, l’hanno condannato a morte con l’accusa di rendere Atene meno sicura, con tutti i suoi dubbi e le sue domande. Il sociologo corre a comprarsi una storia della filosofia greca).
Greci: «Dov’e che vi riunite in assemblea? Avete dei luoghi per discutere di politica quando non lavorate o non vi riposate?».
Sociologo (un po’ imbarazzato): «Noi non ci riuniamo molto. Lo facciamo qualche volta quando si tratta di decidere chi paga le spese dell’ascensore o per fare una petizione contro gli scippi».
Greci: «Ma come fate a scegliere i vostri magistrati, gli strateghi, i responsabili dei giochi pubblici?».
Sociologo (più sicuro di sé): «Beh, ecco, ogni cinque anni o giù di lì, andiamo a votare, proprio come facevate voi».
Greci: «Ma noi ci occupavamo di politica sempre, non una volta ogni cinque anni. E tra un’elezione e l’altra che fate? Andate in guerra?».
Sociologo: «Qualche volta, anche se non si può dire. Noi soprattutto lavoriamo, non è mica come da voi, che vi facevate mantenere dagli schiavi».
Greci (pensierosi): «Ma noi non avevamo le vostre meravigliose macchine, e comunque vivevamo con poco. A noi sembra piuttosto che voi non siate interessati alla politica. Ma che gente siete? Ci ricordate i Persiani. Ecco perché non vi definite più animali politici, ma esseri sociali. Noi però, non vorremmo vivere come voi. Se abbiamo capito bene, la politica la fanno solo quelli che vi governano. Ma voi, cosiddetti cittadini, siete lavoro e casa, casa e lavoro. E allora, crediamo di aver capito. Tutta la faccenda dell’insicurezza è un modo per farvi lavorare e stare a casa quando lavorate. Tutte le vostre paure hanno a che fare con i marocchini, gli albanesi, i rapinatori, gli scippatori, gli ubriachi, le prostitute, tutta gente che sta per la strada. Ma, cari moderni, la politica noi la facevamo per strada, in piazza, al mercato. Ecco perché non avevamo paura. Noi non possiamo fare nulla per voi, perché siamo morti da tanti secoli, siamo solo un vostro ricordo. Ma se fossimo vivi, vi diremmo: non vi fate più ingannare dalla favola dell’insicurezza. Mandate a casa chi vi fa vivere nella paura e governatevi da soli. Sarete anche ricchi, intelligenti e ben pasciuti, ma credete a noi: vi manca proprio il buon senso!».
Sociologo (a disagio): «Ma con voi non si ragiona proprio, me ne vado» (Si alza e torna a compilare statistiche sull’insicurezza urbana).
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